Approfondimenti #4 – Giovani, chi è Dio?

Pubblicato giorno 14 aprile 2018 - In home page

L’approfondimento di questo mese è un articolo, uscito sulla rivista “Il Regno“, di Paola Bignardi. L’autrice, già presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana, si occupa di temi educativi ed è pubblicista. L’articolo “Giovani, chi è Dio?” analizza quest’ultima categoria e la fede che i giovani vivono quotidianemente.

Negli ambienti pastorali si va facendo sempre più inquieta l’attenzione al mondo giovanile. La percezione diffusa  è quella di una crescente incredulità, segnalata qualche anno fa da un saggio dal titolo molto significativo: La prima generazione incredula (di A. Matteo, pubblicato da Rubbettino 2010; c). Titolo efficace  nel porre all’attenzione di genitori, educatori, sacerdoti, docenti… un cambiamento molto importante nel  rapporto tra i giovani e i valori religiosi.
Sono ormai numerose le pubblicazioni che negli ultimi anni hanno lanciato un segnale d’allarme sulla situazione religiosa – e non solo su quella – del mondo giovanile (cf. anche G. Brunelli, P. Segatti, «Da cattolica a genericamente cristiana. Ricerca de Il Regno sull’Italia religiosa», Regno-att. 10,2010,337). Ma forse basterebbe  dare un’occhiata alle assemblee liturgiche di una domenica qualsiasi in una chiesa qualsiasi per rendersi conto  che è in atto un cambiamento profondo che, in generale, viene interpretato come allontanamento o radicale  indifferenza dei giovani rispetto ai valori e all’esperienza religiosa.
L’osservatore comune valuta ciò che vede  come un segnale d’estraneità delle nuove generazioni a un sistema di valori che non intercetta la loro domanda di vita e la loro sensibilità.
Il fatto che papa Francesco abbia indetto un Sinodo dedicato ai giovani sta accendendo di nuovo impegno e di nuove speranze la riflessione e la progettazione pastorale. La preparazione di  uesto Sinodo dà  l’idea di un eccezionale investimento strategico della  Chiesa sulla generazione giovanile e   interroga ogni  comunità.
Ma chi sono i giovani del nostro tempo, al di là del pregiudizio o della presunzione di conoscere già i loro sogni, le loro difficoltà, i loro progetti? È a partire da queste osservazioni che l’Istituto Toniolo [1] ha avviato un complesso lavoro di rilevazione per una conoscenza del mondo giovanile, con un’attenzione particolare alla  dimensione religiosa. Questa attività di ricerca si colloca all’interno di una più vasta indagine che riguarda il mondo dei giovani e che prende il nome di Osservatorio giovani [2]
La più significativa attività dell’Osservatorio è la stesura, ogni anno, di un Rapporto giovani realizzato come  monitoraggio permanente della situazione giovanile nel nostro paese (cf. Regno-att. 10,2017,277). Un capitolo di  ale testo è dedicato a ciò in cui i giovani  credono: i riferimenti, il sistema di valori, le prospettive di vita (sogni, desideri, attese, paure…).
L’analisi della sensibilità religiosa è partita dal quesito: «Lei crede in qualche religione o credo filosofico?».
Nel 2013, il 55,9% dei giovani si è dichiarato credente nella religione cattolica. Ma già i dati del 2014 segnalano  un’erosione di questa cifra. La percentuale passa al 52,2%: una piccola differenza, tuttavia non insignificante, se  i considera che è avvenuta nell’arco  di un anno; tendenza confermata nella rilevazione del 2015: 49,0% per poi  assestarsi al 50,9% nell’ultima rilevazione di fine 2016. Al tempo stesso, la percentuale di coloro che si  dichiarano atei nel 2013 è pari al 15,2%; nel 2014 sale al 17,7%; nel 2015 al 23,6%, dato poi confermato  sostanzialmente nel 2016 (23,5%).

Credo ma non pratico
Interessante e illuminante è considerare la percentuale di giovani credenti che dichiarano una pratica religiosa settimanale nel corso del 2016: solo l’11,3% frequenta la Chiesa una volta a settimana e l’8,4% una volta al mese.  I giovani che, pur dichiarandosi cattolici, non frequentano mai la Chiesa sono il 24,6%. Dunque quanti dicono di  sentirsi cristiani e cattolici vivono la loro fede senza sentire il bisogno di osservare il precetto della  partecipazione domenicale all’eucaristia e soprattutto senza avvertire l’esigenza di condividere conuna comunità  una pratica liturgica assidua, quella che al catechismo è stata proposta come il culmine della vita cristiana e  come uno degli elementi identificativi  dell’essere cattolici.
L’interesse di questo dato sta nel suo indicare  l’evolversi verso una fede privata, senza comunità, senza appartenenza: una fede che alla lunga rischia il fai da te  anche sul piano dei contenuti.
Interessante poi è notare che il genere risulta avere  ancora una forte incidenza  nel campo del sentimento religioso: le ragazze che hanno dichiarato di credere nella religione cattolica sono  infatti quasi il 10% in più  dei ragazzi, così come le giovani che si dichiarano non  credenti sono il 6% in meno dei  coetanei di sesso maschile.
Al Nord, l’appartenenza alla fede cristiana è ovunque al di sotto del 50%; al Sud,  raggiunge il 56,5%. I giovani che si dichiarano atei, al Nord superano il 27%; al Sud sono intorno al 16%.
Richiesti di dare un voto da 1 a 10 a diverse istituzioni, hanno attribuito alla Chiesa un punteggio medio pari a  4,3 con un aumento di fiducia per i giovani cattolici (5,4) e ancor più per i giovani praticanti (6,2).
Ma il grado di  fiducia cambia se si considera la figura di papa Francesco, la cui popolarità supera per alcuni indicatori (la   capacità di comunicare, la simpatia…) il 90% e di cui si apprezzano soprattutto l’impegno per la pace, per il   ialogo tra le religioni e l’attenzione ai poveri.
Prima di addentrarci nell’analisi di ciò che i giovani dichiarano a proposito della loro storia ed esperienzareligiosa, è utile porre in relazione questi dati con alcuni altri relativi a capitoli diversi della vita  giovanile, eppure idealmente collegati: il modo d’intendere il rapporto con gli altri, l’atteggiamento verso il  futuro, la fiducia nelle istituzioni.
È difficile per i giovani avere fiducia negli altri. Alla domanda: «Quanto sei  d’accordo con la seguente affermazione: gran parte delle persone è degna di fiducia? » coloro che rispondono di  essere molto d’accordo sono solo il 6,4%.
I giovani che rispondono poco o per nulla d’accordo sono il 58,9%.  Questi sono i risultati di una rilevazione effettuata tra fine 2012 e inizio 2013; quella effettuata alla fine del 2016,  cioè dopo circa quattro anni, registra un aumento della diffidenza fino al 63%; con un valore lievemente più alto  per le ragazze. Come mai?
Segno di un disagio che si va aggravando nel mondo femminile, oppure segnale che le  ragazze percepiscono, più dei maschi, insidie e minacce che possono venire loro dagli altri?
È difficile rispondere  a questa domanda in assenza di approfondimenti specifici, ma non può non far pensare questo  atteggiamento diffidente delle nuove generazioni.
L’atteggiamento verso la vita è dato anche dal modo con cui si  guarda al futuro. Appiattiti sul presente, i giovani vedono il futuro pieno di rischi e di incognite: lo considerano  tale il 70% degli intervistati. Per questo il 61,4% di loro ritiene che non esistano scelte che valgono per sempre.  Per tutti i giovani, credenti o no, il futuro ha perso la sua attrattiva di tempo delle promesse e dei sogni.
È l’epoca  delle «passioni tristi» [3]: un senso pervasivo d’impotenza e d’incertezza che porta a rinchiudersi in se  stessi e a vivere il mondo come una minaccia.

Inediti credenti
Le istituzioni dai giovani sono bocciate con voti gravemente insufficienti. Anche la Chiesa! Perché? Perché  l’istituzione ha un aspetto d’oggettività, d’indisponibilità: s’impone al soggetto. Si tratta di un processo che certamente si alimenta della scarsa credibilità di molte istituzioni, ma soprattutto della difficoltà d’accettare il valore di ciò che sta al di fuori di sé, potendo influire sulle scelte personali.
L’atteggiamento nei confronti   dell’istituzione si manifesta poi nell’insofferenza verso regole e prescrizioni, nella loro messa in discussione continua: tutto si vorrebbe passare al vaglio della propria possibilità di decisione. Con l’esito, non avvertito, che   tutto deve essere di continuo ri-deciso, in assenza di regole acquisite e routine, senza comportamenti abituali e consolidati che sottraggano alla necessità di reinventare ogni volta ogni scelta!
I dati quantitativi sembrerebbero confermare l’idea più diffusa: i giovani starebbero vivendo un processo di  progressiva estraneità rispetto ai valori religiosi. Tuttavia tali dati non coincidevano con l’impressione che alcuni  dei componenti del Gruppo di ricerca del Toniolo registrava da propri contatti con adolescenti e giovani: il processo di trasformazione s’intuisce come molto più complesso.
È nata così l’idea di un approfondimento  realizzato con modalità diverse rispetto a quelle statistiche: un metodo che consentisse di cogliere le sfumature,  unico modo per raccogliere la ricchezza di un mondo interiore che non può essere valutato semplicemente  attraverso comportamenti osservabili, ma narrato nelle forme ricche che possono emergere solo in un dialogo.
Ha preso così avvio nel 2013 un’indagine qualitativa, che si è realizzata attraverso 200 interviste, con un campione nazionale di 150 giovani, ai quali è stato chiesto di raccontare la loro storia religiosa, i loro pensieri su  Dio, sulla Chiesa, sulla religione e la sua attualità, sulle persone che hanno influito sulla loro esperienza, sul  modo di percepire le religioni diverse dal cristianesimo.
Ne è nata una narrazione corale ricchissima [4], a tratti  carica di emozione, nel ricordo di persone e momenti della propria vita; molto partecipe; attraversata dalla  soddisfazione di poter parlare con qualcuno di temi di cui non si ha normalmente né la possibilità di raccontarsi  é di riflettere. Significativo è che spesso gli intervistati abbiano ringraziato gli intervistatori per l’opportunità  data loro di comunicare su temi così personali, profondi e al tempo stesso inusuali.
Il profilo religioso del  giovane, quale emerge dalle interviste, potrebbe essere rappresentato, con una forte semplificazione, dall’immagine qui sotto.

religione_millennialLa stilizzazione consente di vedere come i giovani abbiano un atteggiamento d’apertura nei confronti di Dio. La stragrande maggioranza di loro dichiara di credere, ma difficilmente, parlando di Dio, ha in mente Gesù Cristo. Quello dei giovani è un Dio anonimo, un’entità astratta: valga per tutte questa testimonianza: «La fede nasce dal   rapporto personale che hai tu con Dio, un Dio indeterminato… che può essere cristiano come non. Io con il mio Dio ho un rapporto personale che è dentro di noi. Ognuno di noi ha un rapporto singolare col proprio Dio. Ognuno di noi è unico e quindi ognuno di noi ha la sua idea di Dio» (maschio, tra i 19 e i 21 anni residente  in un piccolo centro del centro Italia).

Entusiasti del Francesco anti-istituzionale
Molti giovani avvertono Dio come vicino, capace di non far sentire mai soli coloro che credono in lui. A questo  Dio ci si può rivolgere in ogni momento dentro la propria coscienza: non c’è bisogno né di Chiesa né di riti per  pregare: basta raccogliersi in se stessi, pensare a lui, parlargli con le proprie parole. Per questo sono pochi, anche  tra coloro che si dichiarano cristiani e cattolici, quelli che frequentano la messa domenicale. Del resto non  avvertono un legame significativo con la Chiesa e si chiedono che cosa c’entri con la loro fede, che è  solitaria, individualistica, anonima.
Della Chiesa non comprendono i linguaggi, che ritengono superati, astratti,  incomprensibili. Se pensano con qualche simpatia alla comunità cristiana, è perché hanno trovato in essa  soprattutto delle relazioni. Quelli che dimostrano qualche interesse per la Chiesa, citano persone significative  che hanno incontrato nel corso di esperienze, in occasione di eventi, in circostanze particolari.
Anche la figura  del sacerdote viene coinvolta in questa distanza dall’istituzione ecclesiale; a esso i giovani guardano con benevola  indifferenza. Non riuscirebbero a immaginare una Chiesa senza preti, e tuttavia non ne capiscono la  funzione. A meno che qualcuno di loro abbia mostrato vicinanza, disponibilità a entrare in un rapporto  personale e di dialogo.
La Chiesa viene coinvolta, come si è già detto, nello stesso atteggiamento di diffidenza che  i giovani hanno nei confronti di tutte le istituzioni. È confermato il fascino esercitato dalla figura di papa  Francesco, che paradossalmente, pur rappresentando il vertice dell’istituzione ecclesiale, i giovani amano,  stimano, sentono come un riferimento affidabile e sicuro.
I motivi? Si direbbe che venga scelto e amato per il carattere poco istituzionale della sua persona. Vi è poi un’altra figura che i giovani indicano come significativa: è  quella di Madre Teresa, che giudicano una donna coraggiosa, una cristiana seria. Si conferma anche in questo caso un modo esigente di guardare alle espressioni e ai testimoni del cristianesimo, che orienta verso persone la cui testimonianza è caratterizzata da autenticità e  radicalismo nell’interpretazione della scelta religiosa.
La domanda che ha dato luogo alle risposte più originali è:  «Che cosa c’è di bello nel credere?». 142 su 150 intervistati hanno risposto che credere è bello. C’è chi lo ha  affermato da credente e si è riferito alla propria esperienza e chi lo ha espresso come nostalgia verso una  possibilità che si è precluso, ma il dato comune è la quasi unanime percezione della positività di un rapporto con  la trascendenza.
Ancor più interessante è riflettere sulle ragioni per le quali vale la pena credere: perché la fede  dà un senso alla vita; dà una speranza, ma soprattutto perché chi crede non è mai solo, come si legge nella  risposta di questa diciannovenne: «È come se avessi sempre qualcuno vicino, non sei da solo, sei supportato in  ogni momento da un qualcosa vicino che è come se ti aiutasse sempre, è essere convinti che ci sia sempre  qualcuno che ti sta vicino, che quando ti senti solo e ti senti perso nel mondo, c’è qualcuno, sono tranquillo, non sono mai solo» (femmina, tra i 19 e i 21 anni, residente in un grande centro del Nord).
C’è un filo rosso che lega  questo modo di intendere il rapporto con Dio e la ricerca di comunità cristiane nelle quali sia possibile  sperimentare relazioni calde e incontrare persone di riferimento significative. Nella dimensione relazionale-affettiva sembra d’intravedere un possibile spazio di comunicazione e di educazione cristiana dei giovani.

Biografie imprevedibili
I giovani intervistati hanno frequentato nella quasi totalità il percorso dell’iniziazione cristiana, senza che questo  costituisca per loro un’efficace introduzione alla vita e alla comunità cristiana. Essi tendono a costruire da sé il proprio modo di credere, attingendo al patrimonio di conoscenze che hanno ricevuto nel percorso d’iniziazione cristiana, scegliendo ciò che corrisponde in quel momento alle domande e alla situazione esistenziale che stanno vivendo, elaborando il tutto in modo soggettivo.
La celebrazione dei sacramenti, punto  d’arrivo del cammino di catechesi, è anche il momento dell’interruzione dei contatti con l’ambiente ecclesiale,  coinvolto insieme a tutti i riferimenti educativi dalla crisi dell’adolescenza. Questa testimonianza rende bene l’idea del processo che avviene in molti giovani: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che  sono assolutamente certa che non sia necessario andare in Chiesa tutte le domeniche per credere, è  necessario il pensiero di un minuto e mezzo nella giornata, mi basta il pensiero» (femmina tra i 19 e i 21 anni, residente in un grande centro del Nord Italia).
Si abbandona dunque la pratica religiosa, perché non se ne capisce più il senso. E quello che Luca Bressan, nel  suo saggio sui dati dell’indagine, chiama frattura creatrice [5]. La frattura coinvolge tutti gli aspetti della vita  cristiana: i sacramenti, i contenuti, i valori e le regole, e soprattutto la Chiesa, ritenuta istituzione fredda e  lontana, che ha poco o nulla a che vedere con la comunità desiderata.
Cattolici anonimi e nomadi, ma disponibili  a lasciarsi ancora attrarre dalla fede. La frattura non è l’ultima parola, come mostra questa  testimonianza: «Mi sono riavvicinata pensando che da sola non ce l’avrei fatta… Vivo dei momenti difficili, però  per la concezione che ho io della fede, per il fatto che sono cristiana cattolica praticante, ho pensato che se sono riuscita a superare determinati momenti, è anche perché qualcuno mi ha aiutato (…) e questo è il motivo fondamentale per il quale ho pensato che qualcosa deve esistere…» (femmina, tra i 27 e i 29 anni, residente in un  piccolo centro del centro Italia).
È possibile che al termine della giovinezza vi sia un ritorno alla fede. Le  situazioni della vita, una maggiore riflessività, un atteggiamento più pacato e riconciliato con la generazione  precedente, sono elementi che possono indurre un cambiamento.
Qualcuno si chiederà a questo punto di chi  siano le responsabilità della situazione attuale. Che cosa non ha funzionato nell’educazione? Dove si è sbagliato?Ma non è questo l’approccio corretto. Occorre inveceprendere atto che viviamo in una realtà mutata, che ci fa sentire tutti un po’ estranei e fuori tempo e che sveglia in molti adulti il desiderio difensivo della  nostalgia del passato.
L’attuale analfabetismo affettivo, la crisi del desiderio, l’individualismo esasperato che  riporta tutto al soggetto, il consumismo che rende pigri, appagati e annoiati, la crisi della norma, della legge,  dell’istituzione: tutto questo influisce anche sul modo d’interpretare la dimensione religiosa della vita.
Si legge  nel documento preparatorio al Sinodo: «Chi è giovane oggi vive la propria condizione in un mondo diverso dalla  generazione dei propri genitori e dei propri educatori. Non solo il sistema di vincoli e opportunità cambia con le  trasformazioni economiche e sociali, ma mutano, sottotraccia, anche desideri, bisogni, sensibilità, modo di relazionarsi con gli altri» [6].

Le piaghe della vita della Chiesa
La cultura digitale, linguaggio ordinario delle nuove generazioni, influisce sul modo di comunicare, ma anche di  pensare, d’apprendere, d’entrare in relazione con l’altro. Non si può guardare a questi cambiamenti con un  atteggiamento di giudizio: non si può cambiare il corso della storia. Non è accrescendo la distanza del giudizio  che si risolvono i problemi, ma piuttosto cercando altri punti di comunicazione, perché oggi sembra essersi spezzato il dialogo tra le generazioni e dunque la possibilità della trasmissione di valori, tradizioni, modo di  vivere e di costruire la società…
E poi vi è lo stile di vita della comunità cristiana che fa da ostacolo alla  possibilità d’educare i giovani alla fede. Le osservazioni critiche che i giovani fanno sono numerose, riconducibili  ad alcune costanti: l’anonimato  delle relazioni, il non coinvolgimento delle persone, l’invecchiamento delle indicazioni della Chiesa e dei suoi linguaggi.
Ci si rende conto che i giovani mettono il dito  su piaghe vive della vita della Chiesa: la sua lentezza nell’aggiornare il rapporto che esiste tra l’essenziale  del suo insegnamento e le forme culturali attraverso le quali questo si esprime, la passività degli atteggiamenti  prevalenti nelle comunità cristiane, dove si stenta a valorizzare le risorse delle persone e a distribuire  responsabilità.
Soprattutto, la perenne crisi dei modelli formativi che non riescono a stare al passo con la  velocità dei cambiamenti di mentalità della società e che hanno portato, di fatto, a porre all’inizio impegni e  comportamenti da collocarsi solo al termine di un percorso di maturazione con un andamento non regolare,  senza un punto definitivo di conclusione, ma sempre aperto, inquieto, soggetto a crisi e ripensamenti.
Processo  che ha la caratteristica positiva d’essere espressione di ricerca di una fede personale, che pone le radici di essa  nella coscienza, nell’interiorità, e non nel consenso sociale o in ragioni esterne alla coscienza stessa. A questo  punto sorgono molte domande in tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle comunità cristiane: come saranno  fra vent’anni? Che cristiani saremo? Verso quale Chiesa stiamo andando? Che fare?
Forse qualcuno  può avere l’impressione che non ci sia nulla da fare, può lasciarsi prendere da un senso d’impotenza e da un cupo  scoraggiamento di fronte a cambiamenti così profondi. Confrontando il nostro tempo con quello degli inizi  della Chiesa, papa Francesco scrive: «Dobbiamo riconoscere che il contesto dell’impero romano non era  favorevole all’annuncio del Vangelo, né alla lotta per la giustizia, né alla difesa delladignità umana (…) Dunque non diciamo che oggi è più difficile; è diverso. Impariamo piuttosto dai santi che ci hanno preceduto e hanno  affrontato le difficoltà proprie della loro epoca» [7].
La comunità cristiana, nel suo rapporto con i giovani, è a un  bivio (o trivio?); dalla scelta del percorso dipende il suo futuro e, inevitabilmente, il futuro della fede.
Si può  forse non riconoscere la gravità del processo che porterà nel giro di qualche anno a una fede molto privata e  soggettiva, senza Chiesa. Oppure ci si vuole rassegnare a un’idea di Chiesa fortemente segnata da caratteri un po’ New age che già s’intravedono nella sensibilità religiosa di molti giovani.
Oppure, ancora, si può lavorare  nella direzione di una fede più personale e più matura, che non necessariamente coincide con le attuali forme del credere proposte dalla Chiesa. E questo è il vero, drammatico  punto critico! È come se la pastorale dovesse fare un passo indietro dalle sue abitudini, dalla sua organizzazione,  e interrogarsi su come far maturare nei giovani una fede al tempo stesso personale ed ecclesiale; personale  eppure ecclesiale.

Sotto la cenere c’è la brace (a saperla vedere)
La questione religiosa per molti giovani resta sotto la cenere, come una brace accesa, ma coperta, senza che possa scaldare né illuminare. Tuttavia c’è: occorre qualcuno che riesca a soffiare via la cenere, e la brace può tornare ad ardere, a scaldare, a vivere. Occorre andare alla ricerca della brace, che non è sempre così visibile. In questa operazione   può anche darsi che ci si scottino le dita. Eppure solo una Chiesa che avrà il coraggio di soffiare via la cenere e di credere alla presenza dell  brace può avere un futuro.
Dov’è la brace?
– Nel desiderio di una fede personale: si crede in ciò per cui si hanno delle ragioni, non quelle consegnate dai genitori o quelle trasmesse da un’autorità ritenuta impositiva, ma quelle passate al vaglio della   propria coscienza. Se ritiene di non avere ragioni convincenti per credere, un giovane preferisce lasciar perdere, senza che per questo l’esigenza di trascendenza, di pienezza e di assoluto che ha dentro di sé si spenga; o senza essere più sensibile al fascino di quelle dimensioni di vita cristiana cui l’iniziazione l’ha avviato;
– nel senso di Dio, ancora vivo e presente nelle persone;
– nella domanda di una comunità viva, fatta di  persone in relazione, coinvolte e protagoniste;– nella capacità di riconoscere che il cuore della vita cristiana sta nell’amore;
– nel desiderio di linguaggi che abbiano le loro radici nella vita e non nell’astrattezza di una dottrina;
– nella convinzione che credere è bello, perché permette di non sentirsi mai soli: è l’intuizione di un Dio vivo, presente alla persona e nella sua interiorità.
Il mutare della sensibilità religiosa dei giovani rende evidente come le comunità cristiane dei contesti europei e occidentali debbano  porsi la questione della fede del suo futuro, strettamente implicata dall’atteggiamento dei giovani di fronte a essa.
Qualunque siano le decisioni assunte in futuro dalla Chiesa italiana, vi sono alcune scelte di stile che non possono non essere considerate, già da oggi.
La  prima riguarda l’atteggiamento nei confronti del mondo giovanile: occorre che le comunità cristiane ascoltino i giovani e si lascino provocare dalle loro domande, quelle espresse e quelle taciute. Ogni operatore pastorale è consapevole che, senza un’adeguata conoscenza delle persone cui si rivolge la sua azione, rischia l’inefficacia.
E il modo migliore per conoscere è ascoltare, entrare in relazione. Lo ha ricordato anche papa Francesco nella sua omelia ai partecipanti al convegno ecclesiale di Firenze, affermando come a Gesù interessi ciò che la gente pensa «non per accontentarla, ma per poter comunicare con essa. Senza sapere quello che pensa la gente, il discepolo si isola e inizia a giudicare la gente secondo i propri pensieri e le proprie convinzioni. Mantenere un sano contatto  con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo di poterla aiutare, di poterla formare e  comunicare. (…). È l’unico modo per aprire il loro cuore all’ascolto di Dio. In realtà, quando Dio ha voluto parlare con noi, si è incarnato» [8].
I giovani intervistati vorrebbero forme ecclesiali calde e coinvolgenti; la loro domanda di relazioni, nel contesto della comunità e della  liturgia, è molto forte. Se le nostre comunità non impareranno a curare il senso d’appartenenza, non riusciranno a mettersi in  comunicazione con il mondo giovanile. Il senso d’appartenenza non nasce dall’adesione a una serie di verità e a uno stile di vita  condiviso.
Oggi il percorso è rovesciato: prima ci si sente coinvolti in una comunità, e poi s’inizia a prenderne in considerazione il  pensiero, le proposte, lo stile… L’appartenenza è costituita da una catena di legami, e non può essere scambiata con una serie di  discorsi, pure persuasivi, sull’essere comunità. Si sa che creare legami e costruire comunità è più complesso che fare una lezione di catechismo! O enunciare una teoria sulla comunità.

Non è una Chiesa per giovani?
E poi ai giovani occorre far posto: nella società soffrono per lunghe anticamere prima di poter entrare nel mondo del lavoro, prima di  diventare autonomi, potersi fare una famiglia e prendersi delle responsabilità da adulti. Nella Chiesa non deve essere così: ai giovani  occorre far posto perché la Chiesa ha bisogno della loro giovinezza e della loro carica innovativa.
L’ultima provocazione riguarda la  qualità delle figure educative e pastorali che animano le proposte per i più giovani. Vi è in loro un grande desiderio: tutti i giovani si  pongono domande su Dio e sull’esistenza; ma queste sono domande difficili, che una volta i giovani potevano affrontare avendo  accanto a sé genitori, insegnanti ed educatori che li sostenevano nella loro ricerca. Non si può guardare dentro un abisso senza  qualcuno che non ti faccia precipitare. I giovani di oggi sono più soli, questo è l’unico dato che si dovrebbe analizzare.
Dove gli  educatori si sentono soprattutto dei maestri, missionari di una parola astratta, hanno poche possibilità d’essere efficaci. Oggi i giovani  cercano figure di testimoni credibili e convincenti, coinvolgenti e appassionanti. Oltre quaranta anni fa, nell’esortazione  apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI invitava a considerare il primato della testimonianza sull’insegnamento. La credibilità del testimone e la sua funzione esemplare aumentano l’efficacia della parola e invitano a prendere in considerazione il messaggio che il testimone incarna e propone.
Può anche darsi che oggi, invece che di maestri sul piano della fede, ci sia la necessità semplicemente di compagni di viaggio, disponibili con umiltà ad accompagnare percorsi di fede nuovi, forse tortuosi, ma personali e animati da un autentico desiderio di Dio.
Legata a tale questione, in forma particolarmente evidente, è quella dei linguaggi. Oggi le forme della preghiera e della fede, così fortemente debitrici dei linguaggi della teologia occidentale, risuonano per le nuove generazioni come astruse e fuori tempo. Il linguaggio astratto delle attuali forme espressive appare ai più giovani vuoto ed estraneo alla loro vita. Non solo: sembrano loro comunicare un mondo che non c’è più e accrescono nei giovani l’impressione che la formazione cristiana voglia renderli conformi a modelli passati, sradicandoli dalla cultura attuale.

La sfida della Tradizione
Vi è infine una grande questione che interpella oggi la Chiesa e quanti hanno a cuore il suo futuro: quella della Tradizione, alla prova  del tempo. Giovanni XXIII, nel suo discorso d’apertura del Concilio, ebbe ad affermare che la funzione di quell’assise non doveva  essere tanto quella di condannare errori o ridefinire aspetti dottrinali, e nemmeno di ripetere dottrine già note, ma piuttosto di capire  come fare incontrare la fede cristiana con le esigenze dell’uomo del nostro tempo.
Il patrimonio immutabile dell’essere cristiani si esprime nelle forme concrete di una cultura, con i suoi linguaggi, le sue strutture di pensiero, le sue categorie culturali: che cambiano  nel tempo! Oggi gli educatori alla fede e le comunità cristiane hanno un’idea statica di tradizione e formano le nuove generazioni  secondo i caratteri di una società profondamente in crisi.
Come fare in modo che la crisi dell’Occidente e della sua cultura non travolga  anche la Chiesa e la sua possibilità di annunciare il Vangelo alle nuove generazioni? «Rileggere la tradizione ecclesiale alla luce del  contesto odierno, per permettere ai tratti salienti dell’esperienza cristiana di brillare di nuova luce, proprio perché rideclinati e ridetti  con linguaggi nuovi dentro la nuova cultura» [9].
Non sarà forse la crisi religiosa dei giovani un segno dei tempi per le nostre Chiese? Con  le loro crisi, le loro critiche, le loro lontananze che tuttavia non sono espressione di rifiuto di Dio, ma piuttosto di rifiuto di un Dio avvertito come inautentico? Di una proposta cristiana che mortifica la vita, anziché mostrare la via di una sua possibile pienezza? Di una comunità cristiana che non fa vedere il Vangelo?
Una crisi che chiede a tutta la Chiesa non tanto di cambiare le sue strategie pastorali, quanto di mettersi in gioco come comunità dei discepoli del Signore chiamati oggi a una maggiore autenticità evangelica. In fondo non è questo il carattere di una Chiesa in uscita, come ci sta chiedendo papa Francesco? Una Chiesa in stato di esodo, di conversione?
I giovani ci provocano a essere la Chiesa che lo Spirito desidera per le donne e gli uomini del nostro tempo. La comunità cristiana non può perdere i giovani, non solo perché senza di loro sarebbe destinata all’estinzione, ma perché essi sono quella componente dinamica e innovativa che le permette di non invecchiare. È così di ogni contesto sociale.
Ma perché i giovani restino nella Chiesa occorre far loro posto, dare spazio alla loro iniziativa e al loro protagonismo, lasciarsi ringiovanire da essi. Bisogna lasciare che esprimano la loro cultura e sensibilità; lasciarsi provocare dai loro interrogativi senza pretendere di avere la risposta pronta ancor prima di aver ascoltato e riflettuto sulle domande.
E non si tratta d’accogliere le loro posizioni in maniera indiscutibile, ma di entrare con esse in un confronto  dialogico vero, l’unico in grado di generare una Chiesa capace di camminare con il passo del tempo.

[1] L’Istituto Giuseppe Toniolo è l’ente fondatore e garante dell’Università cattolica del sacro cuore. L’indagine citata è realizzata da un gruppo di ricercatori della stessa Università, con la collaborazione di IPSOS per la raccolta dei dati.
[2] L’Osservatorio giovani conduce un monitoraggio continuo della situazione dei giovani nel nostro paese attraverso un’attività di ricerca  realizzata con diverse metodologie e che vede ogni anno la pubblicazione di un Rapporto. Sono finora usciti con Il Mulino i Rapporti 2013, 2014, 2016, 2017. Cf. anche Regno-att. 10,2017,277.
[3] Cf. M. Benasayag, G. Schmit, Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, La Découverte, Paris 2003; trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004.
[4] Basti pensare che la durata media di ciascuna intervista è di oltre un’ora! I risultati di questa parte dell’indagine sono pubblicati nel  volume Dio a modo mio (a cura di R. Bichi e P. Bignardi), per le edizioni Vita e Pensiero, Milano 2015.
[5] Cf. L. Bressan, «Prove di cristianesimo digitale. La fede dei giovani», in Bicichi, Bignardi, Dio, 3-13.
[6] XV Assemblea generale ordinariria del Sinodo dei vescovivi , Documento preparatorio, 13.1.2017, n. I.2; Regno-doc. 3,2017,69.
[7] Francesco, esortazione apostolica postinodale Evangelii gaudium, 24.11.2013, n. 263; EV 29/2370.
[8] Francesco, Omelia nella messa allo stadio A. Franchi,
10.11.2015; Regno-doc. 35,2015,7.
[9] Bressan, «Prove di cristianesimo», 13.

da “Il Regno”: PAOLA BIGNARDI, Giovani, chi è Dio?, Il Regno/Attualità 2017/16, pp.499-505