I Segni dei Tempi #14 – Sanità, bene comune

Pubblicato giorno 6 giugno 2018 - In home page

Il prossimo 23 dicembre il Servizio Sanitario Nazionale compirà 40 anni. Veniva approvata nel 1978 la legge n. 883, che introduceva il principio dell’universalismo in un paese nel quale, fino ad allora, le politiche sanitarie erano state prevalentemente improntate su logiche mutualistiche, corporative e categoriali.

In un momento di grandissima difficoltà del nostro paese – l’omicidio Moro, crisi petrolifera – si diede avvio ad una trasformazione epocale del welfare italiano, in direzione di una responsabilizzazione del pubblico nei riguardi della salute dei cittadini. L’occasione è importante per fare alcune riflessioni sulla sanità, mondo intorno al quale l’opinione pubblica fatica spesso ad esprimere opinioni libere da nostalgie inutili o fastidiose retoriche.

A distanza di quarant’anni, il nostro Servizio Sanitario ha un volto profondamente diverso. E non potrebbe essere altrimenti, considerando i cambiamenti che hanno interessato la nostra società in questi decenni.

Alcune considerazioni di cui tenere conto. La riforma del Sistema Sanitario italiano venne attuata 30 anni dopo essere stata “pensata” dalla nostra Costituzione. Il contesto politico, economico e culturale era completamente diverso da quello di origine: siamo infatti alle soglie degli anni ’80, gli anni dell’edonismo, dell’individualismo e dei primi reflussi dalle forme di impegno collettivo. Già nel 1992 poi, dopo solo 14 anni dalla sua entrata in vigore – anche in questo caso un anno difficilissimo, tra Tangentopoli, crisi economica e una manovra finanziaria “lacrime e sangue” tra le più dure del dopoguerra – si entra in una stagione di effettivo superamento della 883, culminata con le tre grandi riforme degli anni ’90, varate anche per ridurre il peso del Servizio Sanitario sui conti pubblici. La successiva riforma del titolo V della Costituzione aprirà, a partire dal 2001, una terza fase in cui, sulle orme del federalismo, si avvieranno quei processi di regionalizzazione dei sistemi sanitari (Patti per la salute, Conferenze Stato Regioni, Piani di rientro) che ancora oggi ci caratterizzano.

Arrivando ai giorni nostri, due sono le dinamiche di cui tenere conto. In primo luogo, la crisi del debito pubblico italiano ha reso necessari, a partire dal 2010, importanti interventi di riduzione della spesa pubblica – sotto la formula della “Spending Review” – in particolare quella per il welfare. Non poteva non esserne coinvolta anche la sanità, che assorbe circa il 7% del Pil nazionale e il 24% circa della spesa per la protezione sociale. Attraverso interventi sulla spesa per i principali fattori di produzione, il finanziamento pubblico per il Servizio Sanitario Nazionale è stato ridotto di più di un quinto. Allo stesso tempo, il quadro demografico ed epidemiologico evolve verso un progressivo invecchiamento della popolazione e una crescente incidenza delle patologie croniche, degenerative ed invalidanti. Aumenta, in altre parole, il bisogno di assistenza a lungo termine per persone fragili, in particolare anziani non autosufficienti, al quale diventa necessario far fronte con strutture e servizi specifici.

Ragionare oggi sui criteri che valorizzano la sanità come “bene comune” non può prescindere da alcune valutazioni. La prima riguarda la sostenibilità del sistema: come tutto il mondo del welfare, anche la sanità è legata a doppia mandata con la situazione economica complessiva. Difficilmente le risorse da investire in protezione sociale aumenteranno, se il sistema non sarà in grado di consolidare lo sviluppo economico, di sostenere la produzione e di difendere il lavoro. Quando si parla di welfare, inoltre, l’Italia si presenta come un paese nettamente spaccato in due: in merito ai livelli delle prestazioni erogate, tra il Nord e il Sud continua ad esistere un divario così importante da mettere in dubbio l’idea stessa di cittadinanza. Con quali strumenti di perequazione possiamo provare a colmarlo? Sanità pubblica o privata? Qui servirebbero ragionamenti pragmatici. Gli erogatori privati sono importanti, a condizione che vengano governati e che lavorino in un’ottica di integrazione (e non di competizione) con i servizi pubblici. Da ultimo, è necessario riflettere sul modello di sanità di cui abbiamo bisogno. Quello dei piccoli ospedali diffusi su tutto il territorio esprime una prossimità che non è solo insostenibile, ma è anche pericolosa. Studi consolidati provano, ogni oltre ragionevole dubbio, che la concentrazione delle attività ad alta intensità assistenziale è un fattore essenziale per la buona riuscita degli interventi e per la riduzione della mortalità. Pochi ospedali ad elevato potenziale clinico e tecnologico quindi, affiancati però da un sistema di emergenza efficace e capillare, così come da strutture territoriali di prossimità nelle quali garantire le cure primarie, la specialistica ambulatoriale e i servizi ad integrazione socio sanitaria.

Cosa possiamo fare noi cittadini? Innanzitutto migliorare i nostri stili di vita, forti della consapevolezza che 1 € speso in prevenzione ne vale almeno 4 risparmiati in cure. E’ importante poi “consumare” con più responsabilità farmaci, visite e prestazioni diagnostiche e strumentali. Anche in questo caso, gli esperti concordano nello stimare che una prescrizione medica su 3 è a forte rischio di inutilità. Tra le conseguenze di questo approccio “difensivo” alla salute – al quale non sono estranei in nostri Medici di famiglia – c’è anche quello delle liste d’attesa infinite. Un fenomeno che sicuramente dipende anche dalle inefficienze del sistema pubblico e dalla colpevole astuzia di alcuni professionisti privati, ma che potremmo anche noi contribuire a ridurre con i nostri comportamenti di tutti i giorni.

Matteo Moretti