Tra gli Altri #4 – Per una spiritualità del quotidiano (III)

Pubblicato giorno 28 febbraio 2018 - In home page

Il quotidiano: occasione di bene

L’assenza di vigilanza causa la disattenzione verso le occasioni di bene. Il poeta Wordsworth ha scritto: “la parte migliore della vita d’un uomo è formata da quei piccoli gesti di gentilezza e d’amore, di cui non si conosce il nome e non si serba memoria”. Ma cosa è l’occasione? L’occasione è tutto e niente. Pensate ad un atleta che durante una partita vigila, è attento e concentrato pronto a raccogliere l’occasione buona per fare punto. L’occasione da sola non basterebbe, sarebbe nulla senza la perizia, la perspicacia e la volontà dell’atleta; eppure tutto il vigore di questi, la sua forza ed abilità non servirebbero senza l’occasione che, dunque, è tutto. Dall’occasione e dalla capacità dell’atleta può scaturire la vittoria. Nel Vangelo, il buon samaritano, a differenza del levita e del sacerdote, pur trovandosi negli affanni quotidiani, ha saputo cogliere l’occasione.

Il quotidiano, nella sua ripetitività, intorpidisce lo slancio vitale ed espone al rischio dell’ingratitudine; la sobrietà può redimerlo perché capace di valorizzare ogni respiro, ogni passo, ogni boccone: la sobrietà è condizione della vigilanza. Essa è capacità di appagamento e diletto e agisce come difesa dall’abitudine, dalla noia; è vitalità che salva dall’insensibilità verso una vita che ogni giorno invita a scoprire il suo mistero. La sobrietà è lo stile quotidiano che permette d’essere vigili e reattivi pur nella routine giornaliera delle cose; è in tal modo che il richiamo classico dell’omiletica al sentire il sapore d’ogni istante come se fosse l’ultimo può rivelare un significato inedito: non è alla paura della morte che esso mira, ma alla volontà di godimento che, per effetto del’assuefazione, potrebbe spegnersi nell’insensibilità e, infine, nella triste durezza dell’ingratitudine. Educarsi alla sobrietà in famiglia ha, allora, il significato di vedere nel pane d’ogni giorno non il solito pane, ma il pane quotidiano, quello “fresco” che dischiude alla riconoscenza e libera dal rancore.

Nella bolla papale Misericordiae vultus al n. 15 si legge:

“Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge… É mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma delle povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come i suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti”.

L’Antico ed il Nuovo Testamento conoscono molti cataloghi di virtù; ad esempio, per rimanere al Nuovo, 2Cor. 7,17 o 1Pt. 3,8. Nelle opere di misericordia spirituale e corporale non si rimanda ad un non-fare – non rubare, non uccidere, non dire falsa testimonianza… – anzi è proprio l’omissione nel fare il bene che è temuta: avere l’occasione di fare il bene e non farlo è equivalente a fare il male. Anche chi fosse impossibilitato a compiere alcunché, può sempre pregare per i vivi e i morti: la preghiera arriva fin dove la parola non può e l’azione è impraticabile. Le 14 opere di misericordia vogliono permeare il quotidiano di carità, affinché la realtà di ogni giorno non desertifichi. A tutti noi, come insegna Buber ne Il cammino dell’uomo, non sarà chiesto perché non siamo stati Mosè o Abramo, ma perché non siamo stati noi stessi, ossia perché non abbiamo riconosciuto nel mio quotidiano la mia personale e unica via di santità.

F.G.