Ultimo saluto a Giancarlo Nava, missionario

Pubblicato giorno 17 marzo 2020 - In home page

Non avrei mai immaginato di fare un “elogio funebre” a te che con la tua vita hai sempre dimostrato di superare tante battaglie.

La prima, quella di lasciare la tua famiglia e in particolare tua madre, già malata, e di partire giovanissimo per una scelta totale: sacerdote e missionario.

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Ricordo ancora quel giorno quando ci salutasti: con solo con una valigia di cartone e pochissime cose guadagnasti il prim ato fra chi partiva per l’Africa. Parlo al plurale perché a quel tempo eravamo un gruppo molto unito, senza differenze di nessun genere tra i suoi componenti, i quali, per andare avanti, si guadagnavano la vita lavorando nei periodi estivi, prima, e nelle fabbriche, poi.

Quando, come tanti altri, andasti a lavorare nelle località turistiche, tu iniziasti scaricando pesanti casse di bottiglie nei ristoranti che in estate andavano a pieno ritmo e noi facendo altro. Ci ritrovavamo la sera e a nessuno sembrava pesasse lo sforzo della dura giornata appena trascorsa.

Poi, in Africa, da solo. Per guadagnarti da vivere sei andato a fare il manovale in un’impresa edilizia; noi dall’Italia ti inviavamo i saluti e soprattutto molti ritagli di giornale con le notizie della tua squadra di calcio preferita.

Nel frattempo, con il tuo impegno hai trasformato parte della foresta del Camerun in Centri per giovani, hai trovato tante risorse per la Missione, e non solo. Dove tu arrivavi era sicuro che a nessuno sarebbe mancato il pane quotidiano, perché avevi il dono di saperlo procurare per tutti in abbondanza e, diciamolo pure, molti ancora oggi vivono e prosperano grazie a questi tuoi talenti. Per te, mai niente.

Non eri senza difetti; anche tu non eri perfetto. L’uomo è stato creato fragile, peccatore e con tantissimi limiti.

Hai viaggiato, cercato Organizzazioni che potessero finanziare i bisogni della Missione, hai predicato nelle parrocchie italiane. Da Bergamo, la tua diocesi originaria, sei arrivato a Macerata, nella parrocchia dell’Immacolata, dove molti hanno avuto la possibilità di apprezzare il tuo lavoro e il tuo entusiasmo per la Missione.

Mi è difficile fare un resoconto completo della tua attività in Italia e fuori, ma so che avevi il dono prezioso di non conoscere ostacoli, così da ottenere sempre il necessario per i tuoi amici.

È giunto poi il tuo periodo missionario in Paraguay. Sei arrivato all’inizio del duemila. Certamente hai fatto fatica ad inserirti in un ambiente completamente diverso da quello africano. In Paraguay la gente è semplice ma allo stesso tempo difficile.

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Hai cercato di adattarti anche al caldo insopportabile che, a differenza dell’Africa, non ti lasciava neanche di notte.

Hai vissuto con i contadini, coltivando la terra e condividendo le loro stesse necessità, compreso il cibo, a volte così scarso da far soffrire per la fame.

Ritmi duri, strade impraticabili, pericoli ovunque e soprattutto il bisogno di individuare il mutamento continuo che questo Paese viveva.

Colmavi questa difficoltà a comprendere un popolo, la sua identità, trascorrendo lunghe ore nella chiesetta della tua parrocchia dove, accanto alla Vergine, era sempre presente Lui, che mai abbandona i suoi figli, anche nei momenti più bui.

La diocesi dove hai lavorato, San Pedro Apostolo, era certamente la più difficile. Ma alla tua maniera hai superato gli ostacoli, anche quando sei rimasto solo, e soprattutto quando i tuoi amici ti hanno lasciato per motivi diversi. Mai un grazie per quello che facevi, molte critiche, invece, e tante umiliazioni. Eppure ancora oggi tanti vivono della tua eredità, in Africa, in Paraguay e in Italia. Del resto se uno si dice cristiano, è amico di un Uomo-Dio che è stato messo in Croce. Ed io sono sicura che tu in Croce ci sei stato messo varie volte, non per malvagità, ma per ignoranza, per stupidità e forse per invidia. Ma a noi, a cui è ancora concesso un tempo di conversione, resta solo il grave compito di un composto silenzio sulla tua prematura partenza.

Sei arrivato già debilitato dalla Missione e in Italia ti aspettava la tua ultima battaglia: il Coronavirus. Ti sei allora abbandonato alla sua forza distruttrice, il 14 marzo alle 17:30. Solo, come sempre (già dalla tua partenza per l’Africa), sei stato in una anonima corsia d’ospedale, senza la mano amica di nessuno: solo davanti a quel Dio che tutto conosce e mai si lascia ingannare dalle apparenze.

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Alle spalle hai lasciato tante persone che ti hanno voluto bene, persone che ti hanno anche deriso, persone che non ti hanno compreso. Ma alla fine cosa importa?

Dio in questa tua ultima lotta ti è venuto incontro, perché credo –  come ci ricorda Benedetto XVI – che:

“La rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l’uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura”.

Solo la visione di un Dio come questo mi fa gioire e mi invita a non essere triste nel giorno della tua ultima partenza: quella da questa terra.